Un percorso nella Parigi del Secondo Impero (1852-1870), una città in rapida trasformazione, divenuta in breve tempo una “città moderna”.
E’ questo il contesto nel quale lavorano e si esprimono gli artisti presentati a Palazzo Reale a Milano nella mostra “Manet e la Parigi moderna”, che racconta questo periodo della storia parigina con gli occhi degli artisti che ci vivevano, l’amavano e criticavano le inevitabili conseguenze di un cambiamento urbanistico, economico e sociale tumultuoso. Artisti che erano anch’essi parte della sua modernità.
Una mostra che vale un viaggio, non solo per la qualità altissima delle opere esposte (oltre a 16 capolavori di Manet se ne possono ammirare altri 40 di Boldini, Cèzanne, Degas, Fantin-Latour, Gauguin, Monet, Berthe Morisot, Renoir, Signac, Tissot) ma che immerge il visitatore negli ambienti della Parigi dell’epoca, magnificamente raccontata e interpretata dalle sensibilità diverse seppure confluenti in un unico armonico racconto visivo dai più grandi artisti dell’epoca anche attraverso disegni ed acquarelli, maquettes e sculture.
“Celui-là sera le peintre, le vrai peintre, qui saura arracher à la vie actuelle son côté épique…”. “Il pittore, il vero pittore sarà colui che saprà strappare alla vita odierna il suo lato epico…”.
La citazione di Charles Baudelaire, con il quale Manet ebbe un profondo legame di stima ed amicizia, introduce ad una decina di sezioni, attraverso le quali si penetra sempre più intimamente nella vita quotidiana della Parigi della seconda metà ‘800. Ognuna si è identificata nel mio ricordo con una o due tele. Quasi il condensato dell’emozione suscitata dall’insieme della sezione.
Il primo “incontro” è con il magnetico ritratto di Henri Rochefort, di Giovanni Boldini, della cerchia artistica ed intellettuale di Manet. Boldini coglie la vivacità dello sguardo e l’intensità intellettuale di Rochefort, letterato, politico, polemista dalla vita avventurosa, tramite una gamma di neri, grigi e bianchi che lo avvicinano a Manet. Esiliato in Nuova Caledonia, Rochefort riuscì ad evadere con una fuga rocambolesca che raccontò nel suo romanzo L’évadé, roman canaque e che ispirò a Manet il bellissimo La fuga di Rochefort.
Una grande distesa di acqua verde brillante (vera protagonista del dipinto), solcata da brevi riflessi lunari infranti e catturati dai remi di una imbarcazione che si dirige verso il breve orizzonte, dove resta in attesa una nave, meta e simbolo di salvezza. L’impressione è di essere immersi nella stessa acqua, a breve distanza dalla barca, quasi rollando come i fuggitivi sulle onde rese con pennellate di colore, come il ricciolo d’acqua in primo piano che sembra toccare chi lo guarda.
La Parigi che l’urbanista Haussmann stava ridisegnando quale fastosa capitale dell’impero, manteneva angoli quasi campestri, come Montmartre e Rue Saint-Vincent di cui Stanislas Lépine raffigura un angolo, dove il primo piano vuoto introduce magistralmente la prospettiva inserendo figure su più piani e disegnando la curvatura e la pendenza della strada con la linea che separa la zona d’ombra dal piano soleggiato.
Ancora una scena quotidiana e popolare nel magnifico Chiaro di Luna sul porto di Boulogne. Qui Manet “racconta” il quieto aspettare di un gruppo di donne del rientro dei pescatori. L’atmosfera notturna è resa stupendamente dall’uso di chiaroscuri che danno al dipinto un senso di poesia e di mistero.
La luna illumina parte del cielo, del molo e i fazzoletti bianchi delle donne, segnando la linea dell’acqua su cui spiccano le sagome scurissime delle barche che tagliano e scandiscono lo spazio con la verticalità degli alberi e delle vele.
La mondana “Parigi in festa” delle belle donne dai vestiti raffinati e costosi (Una Serata di Jean Béraud) comprende lati ambigui di giovani donne con anziani accompagnatori come nel bellissimo Il ballo di Jacques Joseph (detto James) Tissot, illuminato dal folgorante colore di uno splendido giallo oro dell’abito e del grande ventaglio e dalla prospettiva inusuale del primo piano occupato dai fastosi volants del lussuoso vestito, impigliati in un puff.
Un’allegria dal lato oscuro anche ne Il Ballo all’Opéra di Henri Gervex, con l’ardito scorcio che taglia le figure in primo piano e lo sguardo dal basso verso un palco dove le macchie scure degli abiti di due uomini racchiudono il volto sorridente e mascherato di una donna, forse una prostituta, in abito bianco.
Non poteva mancare in questa sezione Il foyer della danza al teatro dell’Opéra di Edgar Degas, con la leggiadria delle sue ballerine.
Il “Volto nascosto di Parigi” è raccontato nei suoi crudeli contrasti sociali da Manet con la sua La cameriera della birreria (in realtà una prostituta il cui protettore figura in primo piano)
e da Jean Béraud con L’attesa, dove il triste aspettare di una giovane prostituta è reso con indicibile grazia. La scena ha un tocco di malinconia, esaltato dalla figura in nero, graziosa e composta, rivolta verso il centro della tela occupato dalla strada vuota (un vuoto che è una metafora), la cui curvatura porta l’occhio all’uomo che avanza sullo sfondo.
Impossibile citare tutti i numerosi capolavori di questa straordinaria mostra. Nella sezione “Natura inanimata” spiccano il bouquet abbandonato su una poltrona di velluto rosso di Renoir, i bellissimi Garofani di Henri Fantin-Latour che mi hanno incantata. Quasi uscendo dalla tela, protendono verso chi li guarda le loro corolle dalle screziature e dai colori brillanti e dalle forme che comprendono tutto il ciclo vitale dal bocciolo alla pienezza della fioritura.
Manet è presente in questa sezione con il suo fiore preferito, la peonia, simbolo di leggerezza e voluttà, ritratta in Fiori in un vaso di cristallo e nel malinconico e delicatissimo Ramo di peonie bianche e cesoie, dove la drammatica presenza delle cesoie allude al fugace momento che separa la vita del fiore dall’inizio della sua fine.
“L’Heure Espagnole”, “L’universo femminile. In bianco…” , “… e nero. La passante e il suo mistero” comprendono altri capolavori. Non posso soffermarmi su tutti, anche se più di uno in queste sezioni mi ha fatto fermare a lungo ad ammirarlo, come Ciò che si chiama vagabondaggio, di Alfred Stevens, che evidenzia con profonda empatia verso i più umili, la dura esclusione sociale, altro lato della “Parigi moderna” e la brutalità dei gendarmi, che impediscono alla borghese di aiutare la povera donna condotta in carcere con i suoi bambini per vagabondaggio, ovvero per il “crimine di non avere un tetto per ripararsi e un focolare per riscaldarsi“, come commentò lo stesso Stevens.
Non si può non terminare con l’immagine della mostra, Il Pifferaio, ammirato da Gauguin e da Zola, che commentò che il talento di Manet è “fatto di semplicità e di armonia” e che suscitò critiche per la “radicalità del trattamento pittorico”.
Il giovanissimo suonatore di piffero dei volteggiatori della guardia imperiale guarda lo spettatore con uno sguardo serio, concentrato, conscio del proprio ruolo. La figura, immobile, muove solo un dito sulla tastiera del piffero. La sua immobilità è resa da una stesura del colore senza sfumature e dalla mancanza dello sfondo e della prospettiva, appena accennata dalla breve ombra del piede sinistro. La figura è distaccata nettamente dallo sfondo piatto solo dai colori della divisa e dalla banda nera dei pantaloni, che segnano la sagoma, alleggerita dal bianco vivace della fascia e delle ghette. Quasi una “figurina”, più che un ritratto. Ma proprio del ritratto è lo sguardo del pittore verso il soggetto, la cui giovanissima età è resa con tenerezza dal particolare delle gote rosee, proprie di un fanciullo.
Per visitare la mostra “Manet e la Parigi moderna”
La mostra “Manet e la Parigi moderna”, frutto della collaborazione del comune di Milano e del Museo parigino del Quai d’Orsay, rimarrà a Palazzo Reale a Milano fino al 2 luglio 2017.
Per orari e biglietti vedi il sito www.manetmilano.it
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